
Emanuela Coppola, autrice del Libro Avvenne d’ estate
Mio padre mi ha insegnato che nella vita contano i fatti, non le parole. Ed è vero: non si può fermare una guerra con le parole, nessuno può.
Ma le parole non sono mai vuote, possono scuotere. Sanno risvegliare coscienze, farti domandare, sollevare dubbi, spingerti a sentire.
Le parole sanno raccontare. E io voglio raccontare la mia paura più grande: quella di abituarmi alla sofferenza, al “tanto non possiamo farci nulla”, al “sono stanca di sentirne parlare”.
Ho paura di sentirmi così. Temo di arrivare a pensare che la guerra sia una realtà normale o inevitabile.
Ho paura di quella normalità che normale non è, perché in quella normalità muoiono padri, madri e figli ogni giorno, sia palestinesi che israeliani.
Perché ogni volta, indipendentemente da chi combatte contro chi e per quale motivo, le vittime sono sempre le stesse: civili innocenti di entrambi i Paesi.
Il dolore è di tutti, dei palestinesi e degli israeliani.
Forse il male alla radice è proprio questo: assumere posizioni polarizzate, schierarsi da una parte o dall’altra.
Questo alimenta la frattura, il dolore, l’odio che sta alla base di ogni conflitto. Chi uccide, in realtà sta uccidendo i propri figli, non quelli degli altri.
Ho paura di abituarmi all’idea di un cielo diverso a soli 2133 km di distanza.
Un cielo che non parla di libertà, pace, sicurezza, dove nessuno si diverte a disegnare con le nuvole, ma che è solo grigio di polveri.
Ho paura di abituarmi all’idea di un’aria diversa a soli 2133 km di distanza.
Un’aria che non sa di mare, ma di polvere da sparo e fetore di morte.
Ho paura di abituarmi all’idea di un sole diverso a soli 2133 km di distanza.
Un sole che non scalda la pelle, che non racconta albe e tramonti, ma che muore troppo presto ogni sera per rinascere ogni mattina su case sventrate, ospedali distrutti, corpi massacrati, terre devastate, scuole trasformate in rifugi.
Ho paura di abituarmi all’idea di una luna diversa a soli 2133 km di distanza.
Una luna che non invita a sognare né sussurra segreti d’amore, ma riflette la luce delle fiamme che presto bruceranno corpi esili e malnutriti.
Ho paura di abituarmi all’idea di un vento diverso a soli 2133 km di distanza.
Un vento che non solleva palloncini o aquiloni, ma nomi, diritti e dignità senza giudizi né spiegazioni.
Ho paura di crescere mio figlio raccontandogli di una guerra che si è radicata e si tramanda come una filastrocca.
Ho paura degli occhi spenti dei bambini, quelli segnati dalla paura dell’ignoto, dove si rifugia solo il sogno di sopravvivere.
Quegli occhi pieni di domande senza risposte.
Ho paura di parchi giochi che cedono il posto a deserti intrisi di sangue.
Ho paura delle risate soffocate dai rumori delle esplosioni e dalle urla dei feriti.
Ho paura di abituarmi all’idea di un’infanzia e un’adolescenza sotto un cielo di macerie e il silenzio del mondo.
Perché l’abitudine è come la guerra: una malattia che si diffonde, contamina, distrugge.
Ed è per questo che le parole servono.
Servono a opporsi.
Perché la guerra può essere combattuta anche con l’umanità.
Non servono esperti, serve umanità.
Le parole che raccontano la violenza, il dolore, la distruzione devono diventare un grido.
Devono trasformarsi in dimore distrutte, corpi massacrati.
Devono diventare memoria, perché ogni parola che non nomina la guerra, il genocidio, lo lascia vivere, e ogni parola che si unisce al silenzio, lo rende assordante.
EMANUELA COPPOLA